don sergio carettoniblog curato personalmente dall'autore

La pastorale è nuda

Quando i punti di svolta ecclesiale non li possiamo prevedere.

L’emergenza del Coronavirus ci ha portato a scoprire come siamo stati catapultati dentro un tempo ed uno spazio che ci dice che anche per la più piccola parrocchia sperduta su per un monte le cose sono cambiate per davvero, cambiano adesso e cambieranno ancora di più. E i cambiamenti si faranno seri.
Gli imprevisti nella vita arrivano con tempi e modi tutti loro e, il più delle volte, ci ritrovano decisamente impreparati. Non solo a livello familiare, civile, economico e sociale, ma anche dentro il tessuto del nostro essere e fare Chiesa l’emergenza del Coronavirus ci ha portato a scoprire come siamo stati catapultati dentro un tempo ed uno spazio che ci dice che anche per la più piccola parrocchia sperduta su per un monte le cose sono cambiate per davvero, cambiano adesso e cambieranno ancora di più. E i cambiamenti si faranno seri.
Benché millenaria nella sua tempra, nella sua capacità di fronteggiare e di duellare contro qualsiasi tipo di avversità, contro gli attentatori alla sacralità del suo essere la Sposa di Cristo, dalla Seconda guerra mondiale ad oggi per la Chiesa non è mai accaduta una cosa simile in tempi moderni.

L’amarezza di una crisi ora imposta dagli eventi

Già di suo c’era nell’aria un acre odore di crisi pastorale, là dove via via stavamo accettando l’idea di confrontarci insieme e con rinnovato senso di responsabilità con la drammaticità dei piccoli numeri sia a livello di partecipazione generale, sia per l’assenza e il vuoto lasciato da intere generazioni di trentenni, di quarantenni e di cinquantenni, sia per la preoccupante crisi del senso cristiano della vita di molti battezzati. Abituati a parlarne ormai da anni, un po’ tutti aspettavamo sì un peggioramento della crisi pastorale, ma non certo un drammatico arresto di ogni espressione comunitaria del senso di appartenenza alla medesima Chiesa.
L’emergenza COVID-19 non ha fatto crollare solo l’effetto affascinante delle infinite attività pastorali della Chiesa universale e locale. Non sono crollati solo i tanti progetti e atti ecclesiali messi sin qui in gioco dagli operatori pastorali affinché i loro fedeli potessero avvalersi della preziosità delle singole iniziative spirituali e pastorali. Quello che è crollato – o meglio paralizzato – è molto di più. È precipitata l’offerta pastorale. Le porte chiuse delle Curie, dei Centri diocesani, dei tanti Uffici pastorali, delle Chiese, degli oratori per i ragazzi, dei Conventi e di tantissime altre realtà con il “brand Chiesa” raccontano qualcosa che non si è mai ipotizzato di affrontare, non il disinteresse o l’indifferenza di tanti, ma l’impossibilità di molti, di tutti, di continuare a vivere fisicamente il proprio senso di appartenenza alla medesima Comunità parrocchiale, alla Chiesa intera.
E molti operatori pastorali, a diversi livelli e con differenti incarichi, dal vescovo, al parroco, al catechista, al semplice collaboratore parrocchiale si sono scoperti nottetempo pastoralmente paralizzati, impediti dalla veemenza epidemica del COVID-19 a proseguire le loro precedenti attività, impossibilitati a reinventarsi in nuove vie di prossimità pastorale.

Oltre le soluzioni palliative del momento

Certo, nel proliferare delle soluzioni liturgiche online si ravvisa lo sforzo lodevole e la creativa possibilità di offrire un minimo di presenza, di preghiera, di sostegno spirituale a chi desidera non chiudere fuori dalla porta di casa la propria Comunità parrocchiale. Ma a tutti è chiaro che l’offerta non basta o non è possibile per tutte quelle migliaia di parrocchie che non sono social-on.
In moltissimi fedeli, invece, anche in chi un tempo risultava un po’ distante dalla fede, c’è ora un risveglio, un bisogno di presenza fisica della Chiesa, che in questo momento fisica proprio non è. Cosa manca, a chi non giunge all’appuntamento desiderato, forse la mancanza del coraggio della tangibilità dell’essere e del fare Chiesa in qualsiasi situazione, “di salute e di malattia”?
Come si avvera in molte situazioni economico-sociali, anche a livello di Chiesa quasi tutti i settori dell’operosità delle infinte realtà comunitarie sono fermi e, chissà se a pandemia passata, le cose di prima riusciranno a salvarsi e a ritornare efficienti come un tempo.
Se nessuno poteva immaginare quello che è stato, se nessuno si sarebbe mai aspettato una crisi così grande di relazioni umane, altrettanto nessuno può prevedere quello che sarà poi. Così come la Chiesa ufficiale non può prevedere quale potrà essere la reazione di moltissime famiglie che si sono viste negare il rito delle esequie dei loro cari, giustamente per questioni di precauzione del contagio si direbbe, ma forse con troppa precauzione…
Certo, la frase potrebbe essere letta con fastidio per la sua forzata provocazione. Tuttavia, in una vita sociale dove stanno cambiando molte cose, molte idee, altrettante convinzioni e prese di coscienza, prevedere in tanti battezzati il risveglio di una rivolta contro ciò che non ha ecclesialmente retto in tempo di pandemia non è una brutta idea.

Il domani porta già le sue domande

Nella stagione dei tanti tramonti, là dove le luci di un tempo cedono il passo alla notte, dai molti significati e sensi esistenziali, anche nella Chiesa il domani si rende oggi presente già con le sue domande, con le sue sfide e con le sue inevitabili richieste di credito e di rinnovazione.
Se le regole del nostro – non essere – ma del nostro fare Chiesa sono cambiate in così pochissimo tempo, c’è da chiederci se siamo pronti ad affrontare il cambiamento del nostro restare ancora domani Chiesa?
Se da una parte c’è bisogno di riaffermare la convinzione ferma del nostro legame con il Cristo, il bisogno di sperimentare l’efficacia della sua salvezza proprio in questa devastante pandemia, altrettanto c’è bisogno di capire ora come domani potrebbero cambiare le regole e come sarà da rimettere in moto già a livello di pensiero e di progettazione la prossima azione operosa della Chiesa intera.
Bando ai profeti di sventura, cioè a chi dice agli altri “segui me, questa è la direzione giusta!”, è innegabile che nessuno può sapere ora con esattezza quale sarà la strada che domani sceglieranno di percorrere le persone; con quale tipo di società gli operatori pastorali avranno a confrontarsi, con quale idea di Stato e di Europa, di Casa comune dei Popoli, di bisogno del sacro e di giudizio sulla “Chiesa in tempo di pandemia”…

Quando la meta diventa una strada per attraversare il deserto

Più che esporsi a rischi di collasso pastorale, avere una meta benché nel bel mezzo di un deserto, significa avere una strada ecclesiale da percorrere proprio dentro quella situazione di disorientamento già nota dal vissuto di ieri e ora più intrigante per il possibile vissuto del domani.
Si tratta di mettere in contro che c’è un gran bisogno di esporsi a rischi calcolati di creatività pastorale, di innovazione strutturale, di ridefinizione delle priorità, di ricomprensione e di ritraduzione in lingua corrente del Deposito della Fede. Rischi calcolati di Chiesa che se si perde, alla fine abbiamo perso poco, ma se ci azzecchiamo abbiamo vinto tantissimo, abbiamo guadagnato nuovi fratelli e nuove sorelle alla Fede.
Il rischiare nel nome del Signore e dentro la vita della medesima Chiesa significa studiare e creare una strategia vincente perché la pastorale non sia più nuda di senso, ipocondriaca, derubata nella sua passione di Vangelo, nella sua passione di umanità. È questione di vita proprio oltre la pandemia del non senso, del pensiero negativo, del semplicemente essere meno rispetto a chi si illude di essere di più.

Ipotizzare insieme una nuova strategia pastorale

Senza una riflessione a tutto campo sugli elementi fondativi della pastorale, sul valore irrinunciabile della sponsalità della Chiesa, sul bagaglio di valori e di motivazioni da rimescolare e da rimettere in gioco, sulle prassi attualmente in corso d’opera e quelle future ora solo desiderate… senza una comprensione del perché delle cose, tutti i discorsi su come rimettere mano alla pastorale, su come agire una volta superato il COVID-19 sono inutili. Anzi, peggio, sono controproducenti, perché ci danno l’illusione di progettare e di fare qualcosa di utile, esponendoci a nuovi rischi ignoti.
La sfida è quella di sviluppare ora una mentalità teologico-pastorale che osi andare un passo oltre la sola elencazione delle tante fragilità personali e comunitarie, oltre il pericoloso virus della liquidità purtroppo anche nell’azione missionaria dei battezzati, dove non si cerchi come Chiesa pensante e come operatori pastorali di sopravvivere a una crisi imprevista, ma si punti a sviluppare tutte le proprie talentuose potenzialità, diventando più forti proprio grazie a una crisi dentro la quale tutti potremmo annegare per fragilità di pensiero e di azione.
Se è vero che un infermo non si attraversa in fretta, ma ci vuole il suo tempo, soprattutto la dote della scaltrezza evangelica, in questa seconda fase pandemica, prima che suonino a festa le campane della ripresa sociale, dobbiamo concentrarci responsabilmente sul futuro che ci attende, e uscirne da vincitori.

A mo’ di bussola per il deserto, ecco allora qui di seguito quattro domande, solo alcune, niente di più, che ci possono orientare nella nostra presa di coscienza ecclesiale di quanto è accaduto ultimamente e, perché no, per dare creativa libertà di espressione ad una pastorale più resiliente, epifania profetica di una rinnovata alleanza terapeutica tra fede, scienze umane e prossimità evangelica:

1.  Dopo il Coronavirus che cosa cambierà nel nostro modo di essere Chiesa?
2.  Come verranno impattate le precedenti con le future azioni pastorali?
3.  Come è possibile vincere in operosità evangelica in momenti come questi?
4.  Cosa bisogna fare per costruirsi una stabilità ecclesiale e pastorale nei prossimi mesi e prossimi anni?

don sergio carettoni