don sergio carettoniblog curato personalmente dall'autore
Beata Apatica, patrona degli insensibili

Beata Apatica, patrona degli insensibili

Senza passione non c’è vita, si dice. Non può esserci neppure l’inizio di un’avvincente storia d’amicizia e d’amore, o il brivido di un’avventura, oppure l’entusiasmo della partenza per un viaggio da sogno. Senza passione i pensieri diventano tutti dello stesso colore, e ogni vibrazione di vita si riduce a muoversi dentro le previste sfumature della monotonia.
Apatici non si nasce! Qualcuno potrebbe obiettare che neppure lo si diventa in modo del tutto naturale! Infatti, il primo inconsapevole ed emozionante vagito di un neonato è già un originario pianto di passione per lo schiudersi di una vita tutta in avanti. È un grido quel pianto, atteso e innocente, che certifica il sopraggiungere di un tempo divenuto ormai maturo, l’istante in cui bisogna abbandonare il guscio materno, ora scontato e troppo piccolo, talmente stretto da non poter più contenere il futuro e le sue storie.
Eppure, bisogna ammetterlo, senza passione, cioè apatici di fronte alla vita e alle sue sorprese, scopriamo un giorno di esserlo diventati per davvero, quasi per legittima difesa o per stupida passività. Quando all’interno degli eventi di ogni giorno compare la negatività, che prede sottobraccio molti momenti della vita, avvertiamo che l’apatia prende in noi il sopravvento, soprattutto sulla nostra capacità di autodifesa e di sopravvivenza. Sinuosamente, l’apatia avvolge una dopo l’altra le moltissime dimensioni della nostra personalità, fino ad arrivare a praticare in modo indolore l’anestesia della nostra mente e quella, ancora più triste, del nostro cuore.

La storia della beata Apatica

Felice e Vita erano visibilmente emozionati alla nascita della loro prima figlia. Dopo tre burrascosi maschietti, piccoli guerrieri in giro per casa, ecco l’arrivo di una dolcissima bambina, accolta come un segno di benedizione dal Cielo. Non fu così per il cerchio dei parenti, da sempre essi preferivano al sesso debole delle femmine quello più rassicurante dei maschi, i veri guerrieri del villaggio, perché, più che con gli arnesi di cucina, il clan va difeso con le spade; e di donne già ce n’erano a sufficienza.
Senza prendersela più di tanto, Felice e Vita reagirono all’arroganza dei parenti e alla loro prima figlia misero il nome principesco di Atarassìa, colei che con il passare degli anni sarebbe diventata la persona più imperturbabile ai graffi delle parole e dei fatti della vita.
Alla prima seguì poi una seconda figlia, Adiaforìa, anch’essa malvista dal giro dei parenti. Tuttavia, Adiaforìa fu la prima donna a imparare l’arte del fischiettare da mattina a sera, senza mai stancarsi, per raccontare melodicamente la sua indifferenza nell’accettare o meno qualsiasi cosa del mondo.
L’anno seguente, infine, arrivò l’ultima figlia, la piccola Apatia o Apatica, come lei preferiva essere chiamata, la ragazza eternamente adolescente, sempre in fuga da qualsiasi passione della mente e del cuore.
Arrivato il momento, rispettando le usanze del tempo, per Apatica i genitori scelsero uno sposo, un giovane davvero fuori dal comune, il prestante Entusiasmo. Si trattava di un ragazzo eternamente sprizzante di vitalità, sempre al massimo delle emozioni e appassionato di mille cose. Senza essersene mai innamorata per davvero, Apatica faceva molta difficoltà a coniugare la sua vita tranquilla con l’esatto opposto di se stessa. Ci provò per un po’ di tempo e in tante occasioni si sforzò di farlo con tutta se stessa, pensando che quello sarebbe stato l’amore della sua vita; ma sempre di più tra loro le cose scivolavano nella noia e nella monotonia più nera. A Entusiasmo Apatica iniziò ad andare stretta, troppo stretta, esasperatamente piena di cose scontate, troppo silenziosa e senza il brivido di una sorpresa o di qualcosa di emozionante; mai un guizzo di esuberanza e di allegria. Da dì a qualche anno, un giorno Entusiasmo confessò ad Apatica di essersi innamorato di un’altra donna, Euforia, e in men che si dica scappò in un altro paese, convolando con lei a nuove nozze.
Richiudendo l’uscio di casa, senza battere ciglio, più distaccata ed indifferente che mai, Apatica si limitò a dire: “Alla fin fine non ne vale la pena legarsi alle persone”. Scelse così di entrare in uno stato di contemplazione estatica, ricercando ogni occasione propizia per evadere dal suo coinvolgimento emotivo con la realtà circostante.
Benché beata nella sua ritrovata solitudine, Apatica aprì una scuola di autodifesa emozionale, per insegnare alle giovani generazioni l’arte del sopravvivere alla violenza delle emozioni e dei sentimenti. Frequentando le sue lezioni, molti studenti iniziarono a imitare lo stile di vita della loro maestra, sempre di più prendendola come modello per la loro stessa felicità. Con un mentore così illuminante i suoi discepoli non fecero molta difficoltà ad impegnarsi a non restare anch’essi imbrigliati nei lacci della vita degli altri, ma ogni volta liberi da qualsiasi passione umana.
Apatica morì nella quasi totale indifferenza degli abitanti del suo villaggio. Fu una morte passata sotto silenzio, indifferente a molti, il trionfo più grande che lei stessa potesse sperare. A chi ebbe modo di conoscere Apatica, la sua storia insegnò a come vivere ogni giorno senza il bisogno di ricorrere alle emozioni del cuore, ma trincerandosi dietro l’arte dell’inappetenza della vita.

Due passi nell’anima

La non voglia diventa la regina che determina tutto. È questo l’atteggiamento delle persone apatiche di fronte alle mille campanelle che suonano alla porta della loro vita.
Per tanti motivi, per ragioni del tutto soggettive, l’apatico manifesta una sua personalissima inappetenza della vita. Non gli va né questo né quello, non lo attrae più di tanto questa o quest’altra cosa, la non reazione è la reazione più naturale a tutto. Se proprio deve, l’apatico spilucca le esperienze della vita, senza mai però decidersi di consumare fino in fondo la sua porzione di vita.
Purtroppo, nelle persone apatiche si riscontra una concreta e grave perdita di sete e di fame di vita, e il campanello d’allarme di questa anoressia esistenziale suona a livello del crollo delle motivazioni. Non c’è più nulla nel mondo, nella vita degli altri, nelle novità mattutine e nelle cose che se ne volano via a sera, nulla che possa stuzzicare l’appetito per le cose gustose della vita, così come riaccendere la sete per “fresche, chiare e dolci acque”… Sembra che il nulla dell’esistenza sia quella cinta muraria di pensiero e di autoprotezione che l’apatico costruisce attorno a sé, un po’ per delimitare il campo della sua zona confortevole, un po’ per tenere a debita distanza i ripetuti assalti della sua vita relazionale ed affettiva.
La mancanza di gusto non è solo per il bere e per il cibarsi di sostanze vitali offertegli ogni giorno; la mancanza di gusto è anche per la propria capacità di pensare, di cercare, di trovare, di riflettere e di provare emozioni nella mente e nel cuore. All’apatico manca strutturalmente il gusto di camminare dentro le fatiche di ogni giorno per raggiugere tappe, traguardi, mete di tutta una vita.
È una storia personale quella della persona apatica di progressivo e permanente smarrimento sia del senso ultimo sia della meta irrinunciabile della propria storia personale. È un’avventura di triste derealizzazione, in cui l’apatia diventa un vero e proprio sistema di vita, un modo di pensare e un modo di agire di alcune persone le quali, pur inserite nella trama delle relazioni sociali, volutamente relegano all’ultimo posto i sentimenti e le emozioni normali della vita.
Più di ogni altra persona, l’apatico necessita urgentemente di una cospicua dose di coraggio per affrontare a 360° un salvifico sforzo di autoanalisi esistenziale, facendo leva sul recupero e sulla valorizzazione della sua memoria positiva e dei suoi vissuti culturali e affettivi; tutto prima che in lui ogni traccia di luce vitale scompaia per sempre.

Pericolo Vangelo

È un Gesù davvero energico quello che si misura con i suoi confratelli ebrei. Senza mezze misure, senza pindarici giri di parole, è un Gesù che dice – diremmo noi – “pane al pane e vino al vino”, pur mantenendosi sempre dentro la verità delle cose e nell’arte del rispetto delle persone. Non è da tutti, ma il giovane Rabbi di Nazareth non è maestro solo perché bravo a chiamare le situazioni di vita con il loro nome, ma soprattutto perché sa parlare al cuore e sa accendere di passione la mente dei suoi ascoltatori, senza inutili complicazioni di pensiero o illusioni di ogni sorta, provocando in essi un processo di liberazione e di guarigione profonda.
Se inizialmente Gesù si pone in modo tranquillo e pacato di fronte al modo in cui viene accolta la sua persona e il suo messaggio, gradualmente che il discorso si fa esplicitamente chiaro e duro con gli ebrei del suo tempo, egli inizia a confrontarsi con un’evidente indifferenza dei suoi confratelli al vero spirito dell’Altissimo. Inizia Gesù a parlare chiaro, molto chiaro; ad elencare le cose che non vanno bene, che risultano essere fuorvianti per chi è alla ricerca del Regno di Dio. Un passo più avanti, il confronto diventa scontro, lo scontro un conflitto giocato su tutti i fronti e a Cielo aperto.
E proprio per confrontarsi con il muro dell’indifferenza di molti, per fronteggiare lo scostante atteggiamento di chi ha deciso in cuor suo di non lasciarsi coinvolgere dalle sue parole, per contrastare l’apatia di chi afferma di credere già abbastanza in Dio, Gesù non teme di varcare i confini del lecitamente umano, del quieto vivere e del comodo credere in qualcosa di spirituale.
Dai suoi discepoli il Maestro di Nazareth esige molto di più che un semplice atto di fede in lui e in Dio; da essi pazientemente attende la dimostrazione concreta di un buon livello di passione per le cose del Padre dei Cieli, una forza che in lui diventa fuoco tanto grande da incendiare il mondo intero. All’apatia di molti Gesù contrappone la sua passione disintegrante del Male, nella forza costruttiva del Bene, e contraddice il Nulla con il Tutto dell’amore per Dio e per l’uomo, facendo sì che ogni singolo evento della vita di una persona sia occasione unica e preziosa per ristabilire un contatto iniziale e una relazione permanente tra mondi e significati esistenziali diversi di senso e di vita.
Gesù rifiuta energicamente ogni apatia in riferimento alle cose di Dio e alla vita delle persone. Per lui è inaccettabile che la mente e il cuore di un uomo e di una donna si riducano all’incapacità di spendersi per ideali di vita e di senso che hanno in Dio stesso la loro illuminazione. Se l’essere umano è stato pensato, voluto e creato per vivere in uno stato di relazione permanente con Dio, con i suoi simili e con il creato intero, quale disumana avventura è il fuggire di una persona da questa trama di rapporti e di relazioni vitali, trincerandosi dietro muri di incomunicabilità. Per Gesù l’apatia non diventa altro che il vestito ad hoc delle persone sfuggenti alla bellezza della relazione e del contatto divino, umano e del mondo della natura attorno.
Non c’è posto dietro il giovane Rabbi per il gruppo degli apatici, per quanti non sanno ballare e cantare al suono della melodia dell’amore di Dio; per quanti vogliono restare ricchi di mille cose ma poveri del tesoro custodito nel Regno dei Cieli; per coloro che camminano sempre oltre, facendo finta di non vedere il dolore degli altri, giusto per non lasciarsi coinvolgere da essi; per chi…
Per chi si professa credente, invece, l’apatia all’amore di Gesù è la più alta forma di insensibilità alla sua vita, così come di insensibilità a se stessi e a quel futuro che si potrebbe schiudere davanti ai propri occhi solo percorrendo la via da lui percorsa, abbracciando la verità da lui proposta, rivivendo la vita da lui donata. Al punto estremo, nella vita di un credente l’apatia si presenta come una forma di suicidio spirituale, silenzioso e via via progressivo, e ancor di più un suicidio del senso ultimo del proprio esistere.
Né verso l’attrazione del Bene, tantomeno verso gli attacchi del Male, Gesù non rimase apatico e indifferente, ma in entrambe le situazioni si coinvolse con la totalità del suo cuore, della sua mente e della sua stessa anima. La sua passione per l’umanità inferma fu travolgente allora – così come lo è tutt’oggi –, a patto che la persona malata di apatia dubiti delle sue illusorie sicurezze per schiudersi all’esperienza dell’abbraccio e della fraternità in Cristo.

Preghiera alla beata Apatica

O beata Apatica,
solo tu non ti lasci sconvolgere
dal mare tempestoso delle emozioni,
ma, distaccata e indifferente,
continui il tuo viaggio,
avvolta nella sicurezza della monotonia.

Tra distese solitarie,
là dove sinuosa tu mi attrai,
là dove i miei piedi mi conducono,
donami il coraggio di vincere
con la forza dell’indifferenza
l’assalto delle vibrazioni
della mente e del cuore.

Difendi la mia tiepidezza
e non mi abbandonare alla tentazione
di accendermi per ciò che,
pochi passi più oltre,
come è stato per ogni cosa della vita,
nuovamente si spegnerà
nella notte del mio cammino.

Nell’abbraccio della noia
fa crescere in me l’albero dell’insensibilità,
per difendere il monumento del mio io
dalle intemperie delle stagioni,
dal graffiare del tempo che passa,
dalla luce gagliarda degli altri,
che prima mi riscaldano
e poi mi abbandonano
al freddo della mia edicola.

O beata Apatica,
sii tu la mia amaca. Amen.

don sergio carettoni