don sergio carettoniblog curato personalmente dall'autore
Discepoli di Gesù o del risorto?

Discepoli di Gesù o del risorto?

commento spirituale a
Gv 15,1-8

Gesù disse ancora:
1 «Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. 2 Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto.
3 Voi siete gia mondi, per la parola che vi ho annunziato. 4 Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. 5 Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. 6 Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano. 7 Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato.
8 In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».

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In questa quinta domenica di Pasqua la liturgia della parola intende aiutare le nostre Comunità cristiane a fissare la propria attenzione, più che sui racconti della risurrezione e delle apparizioni di Gesù di Nazareth, sul rapporto tra il Risorto e la comunità dei suoi discepoli.

Se la parola di Dio ascoltata nelle domeniche precedenti ci ha invitato ad accogliere nella nostra vita l’annuncio diretto che “Cristo è risorto”, che “Cristo ha vinto la morte”, ora lo stesso annuncio ci viene precisato nella testimonianza di fede della prima comunità cristiana. Le donne al sepolcro, così come Pietro, Giovanni, Filippo… sono loro a rivelare in prima persona quanto hanno veduto e udito dal Risorto. Anzi, la parola proferita da costoro è il risultato di un’autentica esperienza di fede e assume le caratteristiche della testimonianza coraggiosa, fino ai limiti dell’eroismo.

Non esiste, tuttavia, alcuna testimonianza di fede autentica se questa non è ancorata ad un fatto divino ben preciso; ad un’esperienza che ha lasciato nella mente e nel cuore di chi l’ha vissuta un segno indelebile del passaggio di Dio. Il fatto innegabile che il Maestro è risorto e che è apparso ai suoi diventa per il credente un segno divino, quell’orma indelebile, la certezza del proprio incontro con il Dio della vita.

I primi ad essere consapevoli di tutto ciò sono propri gli apostoli e i discepoli di Gesù, che hanno vissuto i giorni seguenti gli eventi della passione-morte-risurrezione del loro Maestro facendo l’esperienza del ricordo di quanto il Nazareno ha fatto e detto quando era in vita. Un ricordo il loro carico di significati e di emozioni; e la pagina del vangelo che la liturgia eucaristica ci propone in questa quinta domenica di Pasqua ci presenta proprio il ricordo di un frammento del discorso che Gesù ha rivolto ai suoi durante l’ultima cena. Ma più che di un discorso d’addio ‑ come si è soliti dire ‑, vorrei meditare le parole del Signore Gesù intravedendo in esse un susseguirsi di parole volutamente programmatiche.

Io sono la vera vite… – Fin dalla creazione del mondo Dio ha inteso inserire nella storia e nell’esperienza di peccato dell’umanità alcune possibilità di salvezza. Da Abramo in poi, attraverso la storia del popolo eletto d’Israele e dei suoi profeti, Dio ha continuamente teso all’uomo la sua mano, perché questa diventasse per lui l’ancora di salvezza. Nel persona del Signore Gesù, poi, all’umanità viene offerta la possibilità di comprendere, di accogliere e di realizzare in essa il regno di Dio. Per spiegare tutto questo Gesù usa l’immagine della vite, del vignaiolo e dei tralci; e così facendo egli precisa soprattutto l’identità delle persone coinvolte nella realizzazione del regno dei cieli. Prima di tutto il Padre dei cieli, il vignaiolo, il potatore divino, che intende coltivare ancora una volta all’interno della storia umana l’albero della vita: la vite, il suo Figlio Gesù. Presentandosi come “la vera vite”, Cristo ammette l’esistenza di altre viti, di altri tralci, ma l’attenzione del suo discorso è sulla necessità che i suoi tralci, cioè i suoi discepoli, portino frutto.

Il problema sorge circa la questione della potatura dei tralci. È vero che è Dio a potare la vite, ma occorre fare bene attenzione a non affermare che per realizzare questa potatura Dio usi il male. Sarebbe un grave errore di fede intendere l’atto del potare di Dio come un atto di violenza esercitato dalle mani di Dio sull’uomo, sua creatura. Gesù stesso precisa e sottolinea che è unicamente la parola di Dio a operare la purificazione, la mondatura del tralcio, cioè del discepolo. Quest’opera di purificazione, però, è subordinata unicamente all’ascolto libero e responsabile della parola di Dio da parte del singolo discepolo. Ascoltare la parola, accoglierla nella propria vita, lasciarsi plasmare, modificare, potare dal Verbo divino sono tutti momenti possibili se e quando è il discepolo a disporre il proprio cuore all’opera salvifica di Dio. Al contrario, neppure la risurrezione di Cristo, come culmine e fonte della salvezza offerta all’umanità, può annullare la libertà del singolo uomo.

Rimanete in me e io in voi – Gesù prosegue il suo discorso con l’intenzione anche di precisare inequivocabilmente quale debba essere il suo rapporto di legame con i discepoli della sua parola. Vite e tralci sono legati tra loro non senza la condivisione di una stessa storia di vita. La linfa delle vite passa da questa ai tralci e ad essa ritorna perché altri tralci ne possano beneficiare. Gesù desidera far comprende come il legame vitale tra lui e i suoi discepoli si giochi unicamente all’interno dell’ottica della comunione, della condivisione delle esistenze: voi in me e io in voi. Questa storia di dono reciproco divino e umano della vita ha come risultato il portare frutto, segno autentico di reciproca appartenenza a lui, Cristo, e alla Chiesa, comunità di fratelli e di sorelle.

Infine, anche qui occorre precisare che il rimanere dei discepoli in Cristo non è frutto di un loro semplice restare legati a lui, ancorati a lui in modo passivo e remissivo. Si tratta, al contrario, di un atto di volontà rinnovato nel trascorrere del tempo. Rimanere nel Signore Gesù significa piuttosto che i suoi discepoli scelgono con maturità di vita e di fede di diventare persone abitate dalla grazia di Dio, tralci fecondi della vite del regno di Dio. Tutto questo è possibile se dimorare nella parola, dimorare nella preghiera, dimorare nell’accoglienza dei doni di Dio sono tutti momenti della propria fede riconosciuti e vissuti dai discepoli come occasioni di grazia per la propria salvezza.

La gloria di Dio, cioè l’uomo vivente nel Vangelo, è possibile, allora, solo quando il vero discepolo saprà far fruttificare nelle innumerevoli situazioni della vita la parola di Dio ascoltata, accolta, pregata e vissuta in precedenza. In questo cammino di fede, secondo la maturità del cuore propria di ciascuno, ogni uomo di buona volontà è invitato a farsi luogo accogliente di Dio, tralcio fecondo di grappoli d’uva, discepolo del Risorto, poiché ora è stato trasformato dalla sua risurrezione in testimone della Vita oltre la Morte.

don sergio carettoni