È innegabile, fattore di differenza nella Chiesa sono le persone, per il loro stile di vita, per la passione della loro fede.
Fattore di differenza lo siamo un po’ tutti, io per primo, e non solo per il bene che tentiamo di vivere ogni giorno, lo siamo soprattutto a motivo delle fragilità personali che rischiano di caratterizzarci per sempre, che inevitabilmente ci segnano il volto e la vita, chi in modo lieve, solo a causa di qualche piccolo difetto, chi in modo più marcato, per gli errori commessi contro gli altri e contro Dio.
E non si tratta solo di dire “mal comune mezzo gaudio”, oppure “siamo tutti peccatori”, per sentirci meno responsabili, meno coinvolti nella storia di sofferenza e di dolore, di fatica delle altre persone. Se da una parte ci vuole tempo, coscienza e volontà per riprendere respiro, purtroppo basta davvero un nonnulla per rendere sanguinante la vita altrui, così come a boomerang la propria vita.
Il male resta sempre un mistero grande, sia per chi lo subisce sia per chi lo impugna anche per una sola volta. A stento si sa da dove esso sia venuto, quanto ci sta attraversato in questo momento, verso dove rischia di trascinarci ancora, comunque sia, per una via di autodistruzione.
E tutto questo fino a quando? È difficile a dirsi, difficile anche solo ad immaginare come giungere al capolinea del proprio dolore, se non continuando a camminare lungo il fiume delle proprie lacrime, con in cuore la speranza di un perdono sperato, desiderato e, chissà quando, ricevuto in virtù della propria fede nell’intervento amorevole di Dio.
È lui, Dio, a fare la differenza nella Chiesa, quando ci fa comprendere la gravità dei nostri peccati e, pazientemente, ci insegna a camminare per la via dell’umiltà.