La fragilità ecclesiale come spazio di risanamento e di benessere integrale dei singoli fedeli e della Chiesa tutta intera.
Per un’antropologia e per una spiritualità antifragile
Una rilettura in chiave antropologica, biblica e spirituale dell’esperienza personale ed ecclesiale della fragilità, con l’intento di alzare lo sguardo, di non fissarsi alla contemplazione compassionevole delle proprie ferite, di non permettere che il sopraggiungere di quel qualcosa d’imprevisto – come è stata la virulenza della pandemia – diventi ora la forza invalidante del proprio pensiero, del proprio cuore e della propria volontà.
Il tentativo di rilettura in chiave antropologica, biblica e spirituale dell’esperienza personale ed ecclesiale della fragilità, ci spinge a fare una riflessione a tutto campo sul tema della vulnerabilità del nostro essere uomini e donne, spesso capaci di adattamento e di resilienza di fronte a un ventaglio di possibili e prevedibili difficoltà, ma pur sempre umanamente limitati nelle proprie potenzialità di trasformazione della realtà.
Il desiderio qui è quello di alzare lo sguardo, di non fissarsi alla contemplazione compassionevole delle proprie ferite, di non permettere che il sopraggiungere di quel qualcosa d’imprevisto – come è stata la virulenza della pandemia – diventi ora la forza invalidante del proprio pensiero, del proprio cuore e della propria volontà.
Per quanto bloccante, limitante, forte e resistente ad ogni strattone, una catena può essere sempre spezzata, dando inizio ad un processo di inarrestabile liberazione integrale.
Se questo modo di vedere e di affrontare le situazioni del proprio vissuto ferito è lodevole, nel desiderio cioè di una persona di guarire da ogni infermità e di ritornare a vivere a tutto campo, lo è ancor di più dentro il vissuto della singola Comunità ecclesiale, là dove può ritornare ad essere forte in essa la consapevolezza della presenza operosa del Risorto.
Dalle proprie fragilità personali ed ecclesiali, dalle più svariate ferite e catene pastorali, lo sguardo di tutti è invitato a volgersi e ad immergersi a un livello più profondo, dentro il mistero stesso del Cristo sofferente – morto e sepolto –, per apprendere nell’esperienza del buio del sepolcro l’arte della antifragilità, espressa nella forza rivoluzionaria e dirompente della sua resurrezione.
Alla luce del dato della fede, per un credente è dunque possibile fare un passo oltre il seppur lodevole sforzo di presa in esame e di comprensione del ventaglio dei tanti aspetti naturali delle sue personali vulnerabilità, della conta delle ferite e delle diverse esperienze invalidanti – tutte situazioni tipiche del nostro essere uomini e donne soggetti alle leggi del bene e del male.
Tuttavia, non solo a livello di singola persona credente, ma soprattutto in chiave ecclesiale, come comunità dei credenti, la riflessione sul tema dell’antifragilità, fondata sulla e illuminata dalla sapienza evangelica, necessariamente coinvolge aspetti e modi del nostro essere oggi la Chiesa del Risorto.
Si tratta di vivere l’avventura del Vangelo dentro il vissuto corporeo-spirituale del proprio stare e fare Chiesa, una realtà non solo capace di adattamento socio-culturale, o di resilienza etico-relazionale, ma soprattutto, e in modo ogni volta nuovo, una realtà corporalmente antifragile della fede, poiché la Chiesa è chiamata a manifestarsi hic et nunc come il segno tangibile e abitabile della risurrezione del Cristo.
Per un’antropologia aperta al Trascendente
Lasciando alle scienze umane, quali la psicologia e la pedagogia, il compito di spiegare la genesi ed il manifestarsi delle diverse forme di ferite, soggettive e comunitarie, e di come attivare processi di apprendimento dalle proprie esperienze di sofferenza, nel tessuto ecclesiale si possono individuare alcuni istanti in cui non è più sufficiente mettere in gioco le proprie capacità di adattamento alla forza degli eventi, né il coraggio resiliente di contrapporsi con tutte le proprie forze a qualcosa che è più forte di tutti.
A livello antropologico è possibile guardare alla fragilità della singola persona, così come a quella di una comunità ecclesiale, come un momento propizio per imparare a leggere con occhi nuovi – evangelici – quanto sta segnando indelebilmente la propria storia.
Anche a livello ecclesiale, più che un lasciarsi trasportare dalla corrente degli eventi, o più che l’ardire di camminare controvento, c’è un modo più umano di emergere dalla voragine del proprio smarrimento: accettare la propria Comunità per quello che è essa è, con le sue manchevolezze, i suoi limiti, le sue fragilità di pensiero e di azione, le sue imperfezioni di cuore e di mani.
È un viaggio dentro la verità antropologica del nostro essere Chiesa, non secondo la via dell’adattamento, né tantomeno in quella di stringersi titanicamente a coorte, bensì nella ricerca e nella presa di coscienza di quella forza sempre generativa, sempre creativa, risanante e trasformante che è la presenza in modo totalmente altro del Signore Risorto.
In lui è la via, la verità e la vita di un modo totalmente altro di abitare l’umano, nella sua dimensione positiva e negativa, affinché a chi aderisce al dato della fede, dentro una trama di rapporti ecclesiali, sia possibile entrare, nonostante ogni genere di avversità, nella dimensione permanente di un benessere integrale.
Una rilettura in chiave evangelica della realtà del mondo, più che rispondere alle difficoltà con strategie attive o mettere in gioco un’attitudine condivisa ad orientarsi verso una nuova meta invece di ripiegarsi su se stessi, ci porta a dimostrare la capacità continuata di cambiare e di dare significati sempre nuovi agli eventi della vita: della propria persona come della comunità di fede a cui si è scelto di appartenere in modo responsabile e proattivo.
Nella singola persona, non diversamente a quanto accade nella Chiesa la vita è accompagnata quotidianamente dall’esperienza della fragilità: il corpo ecclesiale, il pensiero ecclesiale, lo spirito e le relazioni ecclesiali, benché spazio in cui si rende presente lo Spirito del Risorto, non sono immuni dalla veemenza del male e della negatività.
Eppure, proprio dietro il velo lacerato di una specifica fragilità ecclesiale si racchiudono valori antifragili quali: l’attenzione al senso non solo umano di quanto sta accadendo, una delicata compassione evangelica verso tutti, la sensibilità misericordiosa ai particolari di ciascun vissuto, la dignità sacra di ciò che resterà immutato, l’intuizione dell’indicibile e dell’invisibile che sono racchiusi dentro la vita feconda della Sposa di Cristo, la Chiesa.
La Sacra Scrittura è custode dell’Antifragilità
Si potrebbe fare un elenco di passaggi biblici (AT e NT), quasi una carrellata di personaggi che raccontino il tema della antifragilità (il proto-evangelo delle origini, l’avvenutra di Mosè, l’esperienza di rinascita di Giobbe…).
Compiendo un passo ben oltre l’esperienza dei singoli personaggi biblici, così come gettando lo sguardo oltre l’economia della storia del popolo d’Israele, rileggendo il vissuto di ciascun credente alla luce del mistero pasquale del giovane Rabbi di Nazareth, tutto ci porta a volgere i nostri occhi e i nostri passi ecclesiali dentro un nuovo orizzonte di senso.
Se di fronte all’imprevisto e alla sua forza dirompente e disorientante abbiamo fatto come Chiesa l’esperienza del limite e della vulnerabilità, nella riaffermazione della centralità del mistero pasquale del Cristo abbiamo ritrovato il senso della nostra identità di credenti, nonché la motivazione del nostro non recedere di fronte alle fragilità interne e di fronte alle avversità del mondo.
La capacità di orientare i passi di un cammino ecclesiale dentro un orizzonte evangelico richiede anzitutto la necessità di riposizionare al centro la persona del Risorto, il suo vissuto pre-pasquale e la sua opera post-pasquale: la costituzione di una comunità credente dentro ogni frangente del tempo e della storia, con lo specifico mandato di essere segno di una realtà tangibile del Regno dei Cieli.
Pur dentro tenebre avvolgenti, la qualità delle relazioni interpersonali tra credenti è custode di una relazione Dio-uomo che è di per sé generativa alla realtà divina delle singole persone, poiché l’intervento di Dio nella storia umana non è solo salvifico e misericordioso, ma anche terapeutico di senso e generativo di significati.
Non più le ferite dei propri vissuti ecclesiali, ma le cicatrici di storie di guarigione finalmente raggiunte, raccontano il cammino e l’operosità della Grazia di Dio, un ‘luogo divino’ da abitare, che le parole di Paolo così descrivono:
«Egli mi ha risposto: ‘Ti basta la mia grazia. La mia potenza si manifesta in tutta la sua forza proprio quando uno è debole’. È per questo che io mi vanto volentieri della mia debolezza, perché la potenza di Cristo agisca in me.
Perciò io mi rallegro della debolezza, degli insulti, delle difficoltà, delle persecuzioni e delle angosce che io sopporto a causa di Cristo, perché quando sono debole, allora sono veramente forte» (2Cor 12,9-10).
Qui non si tratta solo della debolezza del peccato e delle proprie fragilità umane, la fragilità ecclesiale parla soprattutto il linguaggio del limite delle proprie umane capacità e del suo superamento secondo la riconnessione di tutti con la volontà di Dio; della ferita dei singoli e di tutti e della cura che possono mettere in atto le opere di misericordia pastorale; della libertà e della reciproca dipendenza, entrambe frutto della potenza feconda e generante del Vangelo.
Nella storia della Chiesa molti uomini e molte donne, martiri e santi di ogni epoca, hanno vissuto con la colorazione propria dei loro temperamenti i valori proposti dal Vangelo, mettendo in atto una quotidiana lotta contro le avversità non per proprio merito o capacità personale, bensì per il carisma che li ha costituiti testimoni di una realtà eternamente antifragile, l’amore di Dio.